Uno studio dell’Istituto Jacob Blaustein dell’Università Ben-Gurion nel Negev in Israele ha dimostrato come anche i pipistrelli possano subire gli effetti dell’alcool. I pipistrelli che mangiano frutta (che può fermentare) subiscono gli effetti dell’alcool (etanolo da fermentazione) che si concentra in questo stesso cibo. Lo studio è stato mirato a verificare i cambiamenti di comportamento degli animali che si cibavano in modo particolare di questo cibo alterato. Ebbene, anche i pipistrelli si ubriacano. Lo studio si è concentrato sulla Rossetta AEgiziaca che mangia frutta. Alcuni pipistrelli sono stati messi in gabbia con una miscela di cibo formata da proteine di soya, saccarosio, acqua ed una concentrazione variabile progressivamente di etanolo fino al 2%. Il comportamento dei pipistrelli fin sotto la soglia dell’1% è rimasto invariato ma la cosa interessante che i pipistrelli evitavano di mangiare il cibo con una concentrazione di etanolo superiore. Pensando che l’aumento di concentrazione di etanolo diminuisse l’appetito, per un combinato effetto tossico-chimico, i ricercatori hanno effettuato anche un esperimento con pipistrelli “affamati”. La prova non ha dato gli effetti che si pensavano, ossia un maggior effetto di ebbrezza ed una riduzione di appettito. I pipistrelli affamati hanno mangiato le stesse quantità di cibo dei pipistrelli ben nutriti e i ricercatori hanno ipotizzato che gli animali in cattività hanno preferito “il male minore” ossia fra scegliere la fame e la morte all’effetto di ebbrezza, hanno scelto la seconda anche perché forse coscienti di essere in prigionia e quindi più sicuri. A questo punto servirebbe una ricerca comparata con animali in natura. Perché le piante producano etanolo ancora non è ben chiaro (sono una causa dei fermenti che consumano gli zuccheri della frutta trasformandoli) probabilmente la “motivazione” è proprio per permetterne la continuità della specie. Il cibo (ed i semi) mangiati da questi animali vengono poi espulsi ed una concentrazione di etanolo bassa permette all’animale di mangiarlo (una concentrazione più alta si sentirebbe) ma anche di preservare il seme dall’attacco di batteri.
L’articolo completo si trova su Nature

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