Il dottor Marco Bani speleologo e naturalista racconta la storia della Grotta Chauvet, dalla scoperta alla Conservazione.

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Una delle più belle rappresentazioni rupestri della Grotta Chauvet

La Grotta Chauvet – L’arte ci fa uomini – Di Marco Bani
Nel pomeriggio del 18 dicembre 1994 Jen Marie Chauvet, Eliette Brunel Deschamps e Christian Hillaire esplorano un’are carsica presso Vallon-Pont d’Arc (Rhône-Alpes).
Trovano un pertugio e vìolano stretti passaggi ignoti ed entrano in una grotta destinata a divenire tra le più importanti e note al mondo. Il terzetto si era consolidato negli anni precedenti grazie alla scoperta di molte grotte nelle gole dell’Ardèche, alcune delle quali corredate di pitture rupestri e reperti paletnologici. In quella fredda serata della domenica prima di Natale il sacro fuoco dell’esplorazione prevale sulla stanchezza e i tre tornano al furgone a prendere gli attrezzi da discesa atti a superare il salto verticale palesatosi dopo gli stretti cunicoli.
Il nero vuoto sottostante rimandava l’eco di una grande sala ipogea.
Possiamo solo immaginare quali progressive sensazioni abbiano provato i 3 speleologi dopo essere discesi e aver cominciato a scorgere, oltre al meraviglioso concrezionamento, i primi segni in ocra rossa sulle pareti, seguiti da immagini in nero sempre più esplicite raffiguranti orsi, rinoceronti, mammuth e altri animali oggi estinti in Francia.
Non erano i primi esploratori di quella grotta e forse i 3 avranno avvertito “presenza” di quegli uomini ancestrali mentre procedevano attoniti in quelle gallerie che rivelavano sempre più l’opera di autentici artisti.
Nella seconda visita saranno rimasti a bocca aperta davanti alla parete coi cavalli e poi dinanzi al gruppo dei leoni della sala terminale.
Il velo di calcite che copriva le figure li rassicurava sulla autenticità.
Le immagini, comprese quelle appena abbozzate, erano centinaia, e forse avranno notato già in quelle prime visite la “firma” di uno degli artisti costituita dalla silhouette ottenuta spruzzando polvere di ocra sulla mano appoggiata alla parete.
Un cranio di orso delle caverne appoggiato sopra un masso a mo’ di altare lasciava pensare a una forma rituale di culto verso quel grande plantigrado che abitava le grotte.
Tutte le raffigurazioni paleolitiche sembrano avere significato rituale e propiziatorio, o comunque una forma religiosa che conferma il tabù della non rappresentazione dell’uomo.
Decine di crani di orso speleo giacevano nell’intorno.
Non erano decisamente i primi a mettere piede in quella grotta. Ma la meraviglia non ha trovato espressione solo in quelle prime esplorazioni.
Quando le analisi al radio-carbonio hanno certificato che le opere risalgono a 36.000 anni fa l’emozione si sarà certamente rinnovata. Si trattava del doppio di Lascaux e Altamira.
Le analisi testimoniano anche che una frana ha ostruito la grotta 20.000 anni or sono. Quella mano impressa più volte nelle pareti della grotta, riconoscibile da un difetto in una falange, apparteneva ad un uomo, un cromagnon dell’Aurignaziano che poteva aver visto gli ultimi neandertal!

Può sembrare esagerato che nelle vicinanze i francesi abbiano speso 55 milioni per ricostruire una copia in scala 1:1 della grotta a beneficio dei visitatori. Ma preservare dal degrado quella “Cappella Sistina” della preistoria prescinde dal calcolo basato sul difficile recupero di una somma tanto ingente.
Quella “fuga dei leoni” della sala terminale per me vale più della Gioconda. Quelle opere d’arte parlano di noi, del nostro divenire uomini che si interrogano sulla propria storia.
Marco Bani
(Nel 2010 Werner Herzog ha ottenuto il permesso di filmare nella Grotta di Chauvet. Il risultato è il documentario Cave of forgotten dreams)

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