Da OrvietoNews.it
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Ecco la sintesi di parte di una tesi di laurea svolta sulla fauna fossile del Monte Peglia dalla dott.ssa Patrizia Argenti. Lo scopo è quello di far conoscere il più possibile il patrimonio di questo importante sito dell’Orvietano, in questo caso la breccia ossifera di cui si parla, che secondo gli abitanti meriterebbe di essere tanto più fatta conoscere e valorizzata.
E’ proprio nella zona del Monte Peglia, inoltre, che è stata riscontrata una delle prime presenze umane dell’Italia centrale.

Una cavità carsica naturale che nasconde un tesoro fossile: la cavità si apre su di un lato di una cava di calcare abbandonata situata lungo la strada tra Orvieto e Marciano, in località San Venanzo
a circa 200 metri sotto la cima del Monte Peglia.
La cavità è a forma di imbuto: la grotta ha un diametro superiore di 3 – 4 metri e è profonda circa 3 metri, di cui gli ultimi 2 riempiti da argilliti rosso scuro. All’interno degli strati di argilliti ci sono blocchi calcarei separati da una vena calcitica al di sopra della quale si è deposta una breccia rosso scuro. I blocchi calcarei rappresentano l’esito del collasso e della caduta del tetto originario della grotta, come sembra dimostrare il rinvenimento di frammenti dispersi di stalattiti.
La vena calcitica indica l’antica presenza, sopra le argille, di acque ricche di carbonio che scorrevano, cariche di detriti, verso l’ambiente interno della cavità che hanno deposto il loro carico di carbonato di calcio.
L’irruzione dell’acqua e dei detriti provocava col passare del tempo marcati fenomeni di erosione sul terreno e lungo le pareti della cavità. Ed è proprio nei depositi sedimentari rilasciati dalle erosioni chimiche e meccaniche che sono stati rinvenuti notevoli resti di vertebrati fossili, attualmente conservati in Italia e all’estero.

La prima scoperta nel 1955 da parte di una marchesa laureanda in paleontologia umana e di uno studente liceale: scoprirono frammenti di ossa e corna che affioravano da una frana di terra rossa sul fianco di una cava di calcare mesozoico. Ne segui un primo scavo che recuperò resti di macro e micromammiferi fossili. Ma fu il secondo scavo del 1963, curato dall’ università olandese di Utrecht a scoprire la maggiore quantità di reperti.

I fossili ritrovati formano, per localizzazione e per tipologia biologica, due associazioni: la prima proveniente da argille rosse e terra nera, al di sotto della calcite comprende micromammiferi come la talpa fossile e altre specie di sorcidi, con la prima presenza dell’attuale topo campagnolo e la lepre Lepus terraerubrae.
Provenienti da questo stato i resti di bertuccia, della tigre dai denti a sciabola (nell’immagine), del cane etrusco, dello sciacallo, dell’orso etrusco e di un bovino.
La seconda associazione proviene al di sopra della calcite e comprende, per quanto riguarda la fauna, sorcidi, arvicolidi e due specie di topo di campagna uno dei quali rinvenuto per la prima volta in Italia, comparso all’inizio del Pleistocene medio.

Le due associazioni sono databili all’inizio del Pleistocene medio, intorno ai 700mila anni fa e si differenziano per le condizioni ambientali originarie. Nella prima associazione, numerose le tracce di arvicolidi, animali che vivevano in ambienti aperti. Il Mimomus savini in aree ricche di acqua, il Pliomys episcopalis in foreste, la talpa in suoli fertili e poi gli attuali topi campagnoli e ghiri tipici dei boschi.
Nella seconda associazione abbonda l’Allophaiomys burgondiae che viveva in praterie con acque correnti.

Si riscontrano differenze climatiche fra le due associazioni. Nella prima, un clima temperato-caldo e abbastanza umido, nella seconda una situazione di raffreddamento climatico qui testimoniato dai fenomeni di erosione meccanica originati da flussi copiosi d’acqua.

NdR — Complimenti alla Dottoressa Patrizia Argenti

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