Archivio La Venta
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Contenuto: I dati statistici disponibili sugli speleologi in Italia vengono utilizzati per studiare la tendenza all’invecchiamento della popolazione dei frequentatori del mondo sotterraneo
Contents: The latest Italian cavers data base are used to estimate the ageing of cavers population
Key-words: età degli speleologi, uso del tempo libero, cavers age, leisure use
Year: 2001
Reference: L’Appennino 1, 2000, Grotte 134

Se Atene piange, Sparta non ride. Al grido dall’allarme di Roberto Mantovani su Liberi Cieli (“Le Ragioni di una Crisi”) riguardo al languire dell’alpinismo di punta, specie in Piemonte, aggiungo mie osservazioni sulla situazione nella speleologia che ho steso per un articolo uscito su “L’Appennino, 1, 2000” (CAI-Roma) completandolo con un’analisi che ho fatto per il recente convegno di Verona dedicato al cinquantenario della SSI.

Sul numero di Settembre-Ottobre 99 della Rivista del Club Alpino Italiano c’è una rievocazione di Gianni Ribaldone, un piemontese trapiantato a Genova, che nei primi anni ‘60 ebbe il privilegio di essere sia uno dei più forti speleologi che uno dei più forti alpinisti del tempo. Vediamo sinteticamente il suo percorso: inizia a fare attività speleologica in modo eccellente facendo pubblicazioni scientifiche sulla morfologia delle grotte che va esplorando, ma anche sull’inanellamento dei pipistrelli; pubblica persino elenchi catastali e cose simili. Partecipa ad una delle più splendide esplorazioni a tuttora, la prima discesa in fondo alla Spluga della Preta, allora leggendaria, ma anche ad innumerevoli altre esplorazioni minori. Nel frattempo si sposta a Torino per laurearsi in ingegneria. Si dedica all’alpinismo e lì sbanca con una serie di salite che realmente annunciano tempi nuovi. Ma così come in speleologia non si limita ad andare in grotta, anche in alpinismo si dedica ad attività organizzative, diventando uno dei protagonisti della scuola Gervasutti e vicepresidente del Gruppo Alta Montagna dell’Uget. Ma mica ha lasciato le grotte: è intanto fra i fondatori del Soccorso Speleologico, poi confluito nel CNSAS. E mica si limita a riunioni: opera per salvare due feriti in una grotta lombarda e la straordinarietà dell’azione gli frutta la Medaglia d’Oro al valor civile. Poi sul Monte Bianco, durante un’uscita del corso della “Gerva”, precipita e muore.
A 24 anni.
“What?”
Ventiquattro anni.
“Scusa, che cosa hai detto?”
Ho detto: ventiquattro anni.

Tutta quell’attività, comprese quelle che ora sono sentite come da speleologi in disarmo (fondatore di questo, vicepresidente di quell’altro), e quelle che ora si pensano tipiche di speleologi disarmati da tempo (elenchi catastali, inanellamenti) sono state fatte da un “gagno”, uno di quelli che non capiscono nulla, si muovono quasi sempre male e, se si muovono bene, non fanno altro e se ne vantano incessantemente. Uno di quelli che se li richiami ad un approccio più disciplinato si irritano, lo fanno di malavoglia,, non scrivono, non misurano (“è da pensionati…”).
E’ chiaro che da allora ad adesso è successo qualcosa.
Aggiungiamo un tassello a questo articolo. E’ noto che uno dei problemi su cui è nata la speleologia è stato quello di risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico di Trieste. La città era una località abbastanza marginale dell’alto Adriatico sino a quando divenne la porta marittima dell’Impero Austro-Ungarico e dunque uno dei porti più importanti del mondo dell’epoca. Il guaio era che la sua posizione, a ridosso di una vasta regione calcarea in cui i fiumi si inabissavano invece di scorrere a disposizione degli utenti, risultava terribilmente infelice dal punto di vista logistico. Ciò stimolò i governi dell’epoca ad incentivare i tentativi di intercettare i fiumi all’interno della montagna che dominava la città. Sul problema di rintracciare “il Timavo” nacquero così le grandi esplorazioni ottocentesche e la speleologia: nel 1841 il fiume venne raggiunto in fondo a quella che per molti decenni rimase la più profonda grotta del mondo, la grotta di Trebiciano. Ma gli innumerevoli altri tentativi di rintracciare l’acqua più vicino alla città furono inutili.

Le vicissitudini belliche di questo secolo non fecero del bene né alla città né alle esplorazioni. Solo in tempi recenti il problema venne ripreso: nel ‘72, in territorio Jugoslavo venne raggiunto il Timavo nell’abisso dei Serpenti (Kacna Jama). Ma in genere di questo problema storico continuarono ad interessarsi solo i vecchi speleologi: nel ‘95 venne esplorata la grotta Skilan, ora la più lunga del carso italiano con oltre 5 km di sviluppo. La squadra che l’ha esplorata era guidata da Giorgio Nicon (“Iure”), un giovinastro di una sessantina d’anni. In questo ‘99 un grosso fiume è stato nuovamente raggiunto nella grotta Lazzaro Jerko. La squadra che ha disostruito frana su frana, svuotando quasi 300 metri di pozzetti, con un impegno quasi quotidiano protratto per due anni, era quasi tutta fatta da pensionati, guidati da un altro giovinastro sulla sessantina, Luciano Filipas (“Ciano”). Insomma, pare che nessun giovane abbia ritenuto bello appassionarsi al gran lavoro tradizionale.
(Mi tornano a mente i titoli di due opere di Adriano Banchieri -un compositore degli inizi del seicento-: “La Pazzia Senile” e “La Saviezza Giovanile”).

Un altro tassello che mi serve a comporre questo articolo lo notai una decina d’anni fa. Si era ad un incontro nazionale della speleologia, ove si mostravano filmati, foto, rilievi, materiali. Una sera, attorno al fuoco, ci mettemmo a cantare le nostre canzonacce, come al solito. D’improvviso, dall’altra parte del fuoco, notai una gran quantità di facce che non cantavano, ma guardavano noi, relativamente più vecchi, che cantavamo. Il loro sguardo era quello tipico di chi guarda un film. Finita la canzone invitai costoro ad entrare nella televisione, e a cantare. Da allora invito parecchio ad entrare nella televisione, e a cantare, ad andare in grotta, a fare gite, a scavare, ad appassionarsi, a rischiare di persona, ma in genere è inutile: guardare la gente che lo fa è, con ogni evidenza, sufficiente per gran parte delle nuove generazioni.
Forse bisognerebbe chiedere a Iure e Ciano.

Dunque nel nostro discorso si concatenano due temi: il primo è che “noi da giovani eravamo meglio”, il secondo è che “ora la fruizione delle cose è indiretta”.
Per prima cosa consideriamo la passata superiorità della nostra gioventù, già ben indicata da Ribaldone. In effetti anche la mia esperienza personale tende ad indicarla: a volte, quando sento che uno si dichiara troppo giovane, o vedo che si sente troppo inesperto per fare certe cose, considero cosa facevo alla sua età e rimango incredulo; ero Delegato del CNSAS a 23 anni, feci la prima grande solitaria a 21 e così via.
Poi, se uno guarda più attentamente, si accorge che non è tutto oro quel che luccica. Intanto la speleologia si è complicata in un modo terribile, e le sue esigenze sono ora altissime. Anche le sole cariche, che un tempo richiedevano un certo impegno, ora richiedono sforzi ben più elevati. Quel che allora consideravamo “speleologo esperto” ora non ci riuscirebbe a convincerci ad imprestargli l’acetilene. Eravamo coraggiosi, sì: ma sempliciotti e competitivi. Ci aggiravamo in grotte sterminate credendo che fossero semplici “cadute” verso un remoto fondo. Ci emozionavamo al reperimento casuale di una galleria quando ce n’erano decine di chilometri attorno a noi.
Quelli che, più anziani, avevano ormai più esperienza e potevano finalmente orientarci, venivano trattati da vecchi imbecilli che sostenevano balle per nascondere il fatto che non se la sentivano più di andare in profondità. In un ambiente così idiota era logico che, ai primi segni di “sfiato” e soprattutto di noia per l’ambiente (alla lunga troppo ripetitivo e poco stimolante), la gente se ne andasse sentendo di “non avere più l’età”: era vero, certi approcci di allora erano davvero da bambini imbecilli. A 25 anni si era proprio vecchi e dunque se proprio si voleva rimanere si dovevano assumere cariche da pensionato o inventarsi “ricerche scientifiche”.

Per fortuna, vecchio dopo vecchio, siamo andati crescendo e con noi è cresciuta la speleologia e, con essa, le grotte. Le persone crescevano e a causa di ciò crescevano i territori esplorati, che quindi esigevano persone ancora più adulte. Se all’epoca si riteneva sufficiente un anno di addestramento per formare uno speleologo, ora si deve riconoscere che cinque anni sono insufficienti.
Dunque è cambiata l’attività che, da cosa da giovinastri, ha assunto una valenza più vasta e matura che può solo essere affrontata da personalità più mature, proprio come l’astronautica e l’alpinismo himalayano.
Record, velocità, profondità, competizione sono cose che esistono ancora ma la loro immagine si è appassita ed è divenuta persino un po’ ridicola.
In questo senso la superiorità dell’approccio attuale è indiscutibile.

Ma arriviamo al secondo tema di questo articolo, la “fruizione indiretta”; perché, in effetti, sono anche cambiate le nuove leve… Il rischio di aprire un discorso sulle stagioni, che tutti sanno che non sono più quelle di una volta, è molto alto, ma lo correrò. E’ cambiata la gente? Credo di sì, vediamone il motivo, vediamo cosa è cambiato nell’allevamento.
Intanto le persone acquisiscono autonomia ed escono di casa molto più tardi, tanto più quanto più la famiglia è agiata. I motivi sono molti: la ricchezza delle famiglie -e con essa la pietà dei genitori- è aumentata e inoltre è difficile trovare come sbarcare il lunario “adeguatamente” per un single viziato da un’infanzia di agi. Inoltre le tematiche di successo, ricchezza, prestigio che dominano sempre più, inducono a stare nella tana chi non è sicuro di sé (tutti) e non ne viene scacciato da genitori coraggiosi (quasi tutti).
Credo che questa “infanzia protratta” nella quale sta vivendo una buona parte della popolazione (e quasi tutti quelli che popolano i vivai potenziali dell’andare in montagna) stia facendo enormi danni a persone che sono destinate a scoprirsi ormai troppo vecchie e inadatte al mondo al momento in cui finalmente usciranno di casa.
Ma prima avevo citato un altro tassello che sembrava marginale: il fatto che non si canta più. Non l’ho dimenticato.
Il canto non è più una cosa sociale, una cosa da “fare insieme”, ma un fatto di esibizione con pubblico; dunque ora per cantare bisogna essere cantanti, sennò si è ridicoli. Un po’ è una malattia italiana: frequentando fisici e speleologi russi avevo scoperto che, finita cena, spesso si cantano canzoni con voci soliste; loro non pretendono che chi si esibisce sia Pavarotti, noi in genere sì e dunque l’esibizione di un solista suscita risatine. Malattia italiana, ma ora si è estesa sino a divenire malattia infantile: chi arriva fra noi ce l’ha già. Perché è successo? Perché non si canta quasi più insieme?

Abbozzando una risposta a questa domanda potremo finalmente collegare i tasselli del nostro discorso collegando la passata frenesia giovanile, l’attuale assenza di canto e i vecchi che esplorano in solitudine: io credo che in questi anni si sia accentuata la dimensione del “vivere virtuale”.
Sono sempre più numerose le persone che, vedendo fare, si saziano come se facessero.
Credo che questo sia causato un po’ dal continuo perfezionarsi degli strumenti tecnologici, un po’ dall’incessante acuirsi della paura di uscire in un mondo sempre più in competizione, ma soprattutto dall’addestramento che le giovani generazioni hanno al vivere virtuale.
Prima di imparare a leggere, imparano a illudersi di vivere, vedendo altri vivere.
Cosa fa al giorno d’oggi una mamma per avere un po’ di quiete con l’unico figlio che la asfissia perché vuole attenzione? Lo mette di fronte alla televisione a guardare cartoni animati.
Il fatto che questa operazione funzioni in modo magnifico la riempie di sollievo, ma dovrebbe terrorizzarla: vuol dire che un perfezionato elettrodomestico con programmi mirati è in grado di sostituirla, cioè è in grado di dare al bambino l’impressione di non dipendere più dalla mamma. Pian piano egli si addestra alla realtà virtuale, al vedere buoni e cattivi che si scontrano con Sbang e Crash, e si prepara da adulto a vedere gente che fa subacquea e a pensare di farla, che va in grotta e a pensare di far speleologia. Al limite un bel film porno lo metterà in pace col sesso.
Il bello della fruizione della vita virtuale è che essa muta, rapida come cambiare una cassetta, come fare zapping. Niente pesanti addestramenti, niente fatiche sotto zaini, niente pericoli. Niente mamme stufe.

Anzi, da collaboratore nella ideazione e costruzione di droghe telematiche, voglio far notare una cosa. Alcune delle caratteristiche fondamentali di un filmato che sia commerciabile e cioè, i) la qualità sempre più alta, ii) la tecnica di aggancio con stacchi rapidissimi (che mai avvengono nella realtà ma solo nei cartoni animati), iii) l’enfasi sui rischi e i conseguenti premi, sono tutte cose che puntano proprio a rassicurare lo spettatore nella sua intima convinzione che la scelta di star seduto con un telecomando in mano sia quella giusta. Vede meglio, non rischia, può vivere in una sera intere spedizioni. Non ha il premio, è vero, e questo forse lo frustra un po’: ma sinché dura il film pensa di averlo, come d’essere Baggio quando fa gol; si ricordi, del resto, che chi tifa per una squadra che ha vinto non dice “ha vinto la mia squadra” ma “abbiamo vinto”… A me pare tristissimo.
Agendo così lo spettatore si prepara ad essere finalmente rassicurato quando per caso capita qualche tragedia. “Quelli lì se la cercavano”, dichiarerà, felice del fatto che l’accaduto abbia dimostrato che fare zapping era proprio la cosa giusta. Questa rassicurazione è l’ultimo passaggio dell’addestramento al vivere virtuale e credo sia per questo che le tragedie in grotta o in montagna hanno smisuratamente più audience dell’attività normale.

Credo che noi, che intendiamo conservare una nicchia viva all’esplorazione, al “fare”, abbiamo uno spazio di reazione, e che sia quello di dare enfasi al fatto che l’andare in montagna (in grotta, sott’acqua o dove diavolo), non ha lo scopo di partecipare ad una moda di successo -cadremmo dalla padella nella brace-, ma è bello in quanto siamo noi direttamente che “facciamo”. Dobbiamo cercare di aumentare l’inquietudine di chi, vivendo nel virtuale, sente che c’è qualcosa che non va. Sono in molti e, spero, saranno sempre di più.
Dobbiamo farlo per dare continuità alle nostre attività, per mantenere vive le scuole, per trovare proseliti: ma forse, più di tutto e più che per salvare le nostre stupide ed inutili attività, dobbiamo farlo per dare vita a chi rischia di morire.
Dante nel finale dell’Inferno incontra un dannato, Branca Doria, che gli risulta ancora vivo, ma la cui anima è già nella ghiaccia: si mostra sorpreso e chiede lumi ad un altro dannato. E’ indimenticabile il giro di parole che usa per dire che Branca appare vivo, ma non lo è: “Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni”. Il corpo del dannato fa le sue funzioni quotidiane, ma è senz’anima: mi sembra che capiti sempre di più incontrare persone in questo stato…

Credo che il problema dell’esistenza di una vita dopo la morte sia poco rilevante, tant’è che nessuno è mai tornato a dircelo; invece mi sembra che conti moltissimo il problema dell’esistenza di una vita prima della morte. Forse c’è, ma bisogna lottare parecchio per averla, e in questi anni è diventato più difficile.

Ed ecco ora una parte meno chiacchiericcia dell’articolo. All’incontro nazionale di Chiusa 98 i circa 1600 speleologi partecipanti hanno compilato un questionario in cui si dichiaravano sia l’età anagrafica che quella speleologica.
Era così possibile dedurre l’età di inizio della pratica, e dunque ho fatto la statistica delle età di primo avvicinamento in funzione dell’anno di inizio, e con una “signora” statistica. Eccone qui il grafico, con le barre verticali che rappresentano gli scarti quadratici medi per ogni anno.

Balza all’occhio che la tendenza ad iniziare la pratica sempre più tardi non è solo un’impressione: c’è proprio. Negli anni ‘70 si iniziava a 18-20 anni, ora intorno ai 25.
Le conseguenze di questo sono moltissime e alcune già le ho delineate, ma aggiungo che le persone arrivano già più formate mentalmente e fisicamente. Dal primo fatto deriva che verranno meno “segnate” dall’attività che sarà considerata “una delle molte” (non erano i gesuiti che dicevano “dateci l’infanzia di un uomo e sarà nostro per sempre”?) e dunque in genere meno degna di assiduo impegno. La parte fisica è anch’essa grave: se il venticinquenne arriva senza esperienze fisiche analoghe a quelle della speleologia gli sarà enormemente più difficile portarsi ad un livello di preparazione adeguato alle grandi grotte.
Questo, insieme con le già citate maggiori difficoltà delle tecniche insegnate, porta con sé che una “nuova leva” diventa preparata per esplorare a grandi profondità (se lo diventa…) solo verso i trent’anni, invece che a poco più di venti come era vent’anni fa. Vediamo se troviamo tracce di questo nelle esplorazioni.
Attualmente nel mondo sono note circa 400 grotte più profonde di 500 metri e quasi 70 di oltre 1000. Vediamo come è variato il numero di grotte note in funzione dell’anno.

Si vede come ci sia un’esplosione da decenni, ma possiamo raffinare l’analisi passando alla scala semi-logaritmica:

Su una scala di tal genere una curva esponenziale (crescita geometrica) diviene una retta. Si vede che il numero di grotte esplorate si comporta proprio, all’incirca, così, ma vedete pure che dall’85 la crescita si è rallentata. Anzi analizzando numericamente i dati si possono estrarre i parametri di crescita, cioè il numero di anni necessario a raddoppiare il numero di grotte esplorate sino a quel momento.

Dal 1960 all’85 la crescita è stata abbastanza regolare, ogni cinque anni e mezzo il numero di grotte note raddoppiava, poi dall’85 c’è stato un netto rallentamento, soprattutto per le grotte di media profondità, cioè quelle più diffuse sul territorio, mentre le ricerche sulle grandi profondità prestigiose hanno ceduto in misura minore. E’ ragionevole, credo, imputare anche all’invecchiamento delle nuove leve la riduzione di mordente dell’attività.

L’attrattività delle nostre attività sui giovanissimi si è andata riducendo moltissimo, forse perché si trovano circondati di vecchiacci, forse per altro. Ma credo che sia bene riflettere molto su questo, sia in speleologia che in alpinismo.

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