Recensione del libro “L’Abisso” – Di Giovanni Badino

L'abisso - Il film

Credo che, in genere, la passione per la speleologia nasca prima dell’ amore per le grotte. Il mondo speleologico può affascinare perché è strano, tribale, alternativo, mentre le grotte appaiono soprattutto come luoghi di cimento, piuttosto ostili. Per amarle, occorre conoscerle, farsene penetrare, imparare ad osservarle con attenzione al di là del cercarvi punti d’attacco o appigli o pericoli nascosti. In tanti non arrivano neppure a questo livello, mi pare, si stufano molto prima, allontanati dalla ripetitività del mondo degli speleologi. S’inizia amando l’attività, e io devo una parte sostanziale del mio amore ad uno speleologo di Genova, Leandro, che aveva un negozio di fotografia in centro, vicino alla stazione di Brignole. Quando passavo a trovarlo rimanevo ore con lui nella camera oscura dove, stampando innumerevoli foto dei clienti, mi raccontava di quella volta che avevano esplorato questa o quella diramazione e così via. Erano esplorazioni di grotte piccoline di Liguria, ma le storie non erano piccole, erano innumerevoli assalti al cielo come quelli che, di lì a poco, avrei iniziato a fare anch’io. Da quelle storie al Fighiera-Corchia, a Boy Bulok, a Piaggia Bella, al Viedma, a Cristales, sarebbe stato solo un cambio della scala dimensionale e dei mezzi tecnici, non dell’approccio. Non tutti abbiamo avuto la fortuna di trovare un bardo che ci cantasse avventure sotterranee proprio nell’età in cui eravamo più sensibili, ma sappiamo bene tutti che le nostre tradizioni sono soprattutto orali, narrazioni di storie che tengono insieme il nostro mondo. Storie vere, dettagli che ci comunichiamo nelle serate alcoliche, nelle soste fredde sotto i pozzi, nei ritorni in auto per stare svegli dopo notti insonni. Ma pare che quando ci apprestiamo a scrivere di speleologia, ce le dimentichiamo. Gli scritti di speleologia in genere sono illeggibili, perché mirano a scrivere di grotte e non di speleologia, e infilano descrizioni sbilenche d’ambienti irrilevanti e che il lettore non conosce o, ancora peggio, descrizioni finte scientifiche di ogni dettaglio. Spesso, infatti, chi non capisce bene cosa fa cerca di descrivere tutto quel che vede, senza sintetizzarlo e decantarlo. All’altro estremo stanno gli scritti che della speleologia hanno solo lo spunto, l’ambiente d’avventura. Se ci capita fra le mani uno di questi, scritto da uno dei pochi che sa tenere una penna (una tastiera?) in mano, possiamo rilassarci, c’è rischio di riuscire a leggerlo. Ma in genere scopriamo che là dentro non c’è più nessun rigore descrittivo, storico; ciò che è avvenuto davvero, le storie intessute con i loro errori ed eroi, sono diventate un canovaccio su cui reinventarsi l’accaduto, piegandoli al desiderio di migliorare un passato che non piace o non è adatto al racconto. Non si cerca di esplorare il mondo dell’interazione fra umani e grotte, ma si fanno racconti ambientati in grotta. Dico quindi che in genere i nostri scritti non parlano delle cose essenziali che ci appassionano.
Pare dimenticata l’osservazione ovvia che nessuno fa speleologia per l’entusiasmo che prova ad esplorare quattro metri di un meandro qualsiasi, o per l’emozione dello scendere nel Portello. I nostri scrittori hanno ritegno a cercare di comunicare l’entusiasmo che gli ha permesso di affrontare quelle fatiche bestiali. E così una vasta operazione speleologica piena di storie, d’entusiasmi e d’avventure, dà come risultato un rilievo, una descrizione e una scheda d’armo, spesso mal fatti. Il libro “L’Abisso”, frutto delle fatiche di Francesco Sauro, non è così, schiva Scilla e Cariddi e timona sicuro cantando la speleologia. Rigorosissimo, documentato, rispettoso di come sono andate le storie, ricostruisce i punti di vista, i contesti in cui è stata condotta l’esplorazione di quella che chiamiamo Spluga della Preta. A tratti la grotta pare scostare Cesco dalla tastiera per scrivere lei, rivelarsi, raccontare come è andata, lei che c’era prima e ci sarà dopo; a tratti ho avuto l’impressione di leggere cose che Cesco, semplicemente, non poteva sapere. Questo è un libro di speleologia che mette allo scoperto la cifra di decenni di discese, di fatiche, di enigmi. Finalmente scopriamo che gli sfottò, le polemiche e gli attriti che quelle esplorazioni avevano generato nel mondo speleologico di allora (e di cui avevo colto i cascami nel gruppo di Torino quando vi entrai dieci anni dopo l’impresa delle “tute stracciate”) nascevano da scelte ragionevoli in situazioni diverse, da piccole mediazioni, da scelte spesso operate senza cercare di informarsi, di capire gli altri.
Senza cercare di cooperare sul serio. Nihil sub sole novi. E schiarendo la chiave delle esplorazioni nella Preta, dove essa era più chiara, la illumina anche per tanti altri posti, chiarisce molto di noi, su come si è evoluto il nostro approccio, la nostra testa, le nostre conoscenze, dovunque stiamo operando. Inutile che recensisca sul serio quel libro, ciascuno lo faccia per sé, mi limito a dire che chiunque abbia fatto o faccia speleologia deve leggerlo. Vi troverà il senso di tante fatiche che lui stesso ha sopportato, e motivi per andare in grotta, sia nelle grottine liguri, nella Preta o nei giganti caucasici.
Dobbiamo fare uno sforzo per far conoscere questi libri veri di speleologia a chi si avvicina al nostro mondo. Nessuno si ferma fra noi perché affascinato dal superamento di un cambio attacco -e se gli basta quello, ne guadagniamo se smette-. Invece penso che questi libri possano spingere a non smettere chi ha potenzialità per la speleologia ma è stato deluso dagli speleologi che ha incontrato. Il mondo delle grotte è molto, molto più vasto ed affascinante di quello della speleologia, ma gli sta nascosto dietro; forse è per questo che, lì per lì, non lo vediamo. Insomma, il libro L’Abisso è un grandissimo lavoro fatto da uno speleologo giovane e molto bravo. Era ora.
Giovanni Badino

L’Abisso. Ottanta anni di esplorazioni nella Spluga della Preta.
Francesco Sauro. CDA
Vivalda Editori, Torino, 2007.

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